C'era una volta un robot di carne. Girava per i laboratori legato da cordoni
ombelicali, stracci posati sulla sua testa. Stracci sporchi di grasso di macchine,
di grasso di mani che lavorano.
Era sdraiato a terra da qualche ora, suo padre, il dottor Ferro. Morto d'infarto.
Girava senza sosta E.r.b., sbatteva spesso contro scansie, scrivanie, cestini
della spazzatura; le sue ruotine scivolavano spesso sui fogli di carta sparsi,
e sulle piastrelle bianche del pavimento. Vetri colorati azzurri separavano
le stanze, separavano macchinari idraulici, tapis-roulant, scatole di provette
da fecondare. Grossi tubi correvano per tutti i corridoi, senza sosta ancora
pulsavano, spingendo acqua, Limo e corrente elettrica.
il dottor Ferro aveva progettato il laboratorio in modo che potesse imparare.
In modo che il laboratorio stesso fosse vivo. Ma il giovane dottore sen'era
andato troppo presto, e il laboratorio ora fremeva di emozioni sconosciute.
C'erano due super elaboratori a prendere le decisioni, e oguno di loro pensava
d'essere solo. Cen'era un terzo del quale nemmeno il dottore aveva capito l'utilità.
Da quando aveva collegato il terzo elaboratore il suo gigantesco Golem di Metallo
dava risposte diverse, che il dottore sentiva risuonare dentro di se, mentre
la sera tardi, a casa leggeva come una bibbia, le parole squinternate stampate
di suo figlio.
Non aveva mai trovato una donna, il dottore. Sempre troppo riservato, poco cacciatore,
troppo suscettibile alle loro carezze. Eppure c'era voluta Mara, la sua assistente,
per collegare per errore alla rete il terzo elaboratore.
Era stato un errore fatto di calcoli, appunti nascosti in un cassetto.